Le tre splendide e simpaticissime sinfonie di questo disco rappresentano gli esordi sinfonici di altrettanti compositori destinati a ottenere gli esiti di maggior rilievo in ambito teatrale. Lavori adolescenziali o poco più, dunque, ma tutt’altro che ingenui, anzi smaliziati in sommo grado sia sul piano delle tecniche compositive che nel rapporto dialettico con la tradizione.
Le prime due, quelle di area novecentesca, sono fra i più significativi prototipi di neoclassicismo musicale. A proposito della sua Prima, si dice che Prokofiev abbia dichiarato che Haydn l’avrebbe composta esattamente così: ma si tratta ovviamente di una di quelle boutades che lasciano il tempo che trovano. Di autentica sostanza haydniana, nella concezione dei temi come nei procedimenti elaborativi, se ne trova ad esempio molta di più nel Concerto per orchestra di Bartòk, che pure neoclassico non è. Lo spirito e la sostanza sono qui invece al cento per cento di Prokofiev, specie nel primo e nell’ultimo movimento, contrassegnati da quel senso di “motorietà”, di dinamismo volutamente un po’ meccanico, che il compositore era solido indicare come uno dei suoi principali marchi di fabbrica. E anche negli elegiaci tempi centrali, il larghetto e la gavotta poi riutilizzata in Romeo e Giulietta, sotto le grazie settecentesche si avverte un retrogusto acidulo che è la griffe della modernità.
Nella Simple Symphony per archi di Britten (in fa maggiore), composta intorno ai vent’anni sulla base di materiale risalente all’infanzia, i movimenti sono contraddistinti da titoli allitteranti ove si allude a tipiche danze barocche come la bourrée e la sarabanda; senza contare che anche il trio dello scherzo evoca la musette, ed è un geniale paradosso che l’autore riesca ad arrivarci in un brano basato esclusivamente sul pizzicato quando essa, per definizione, presupporrebbe un basso in note tenute. Anche qui, in ogni caso, la sostanza ha ben poco di barocco o comunque di settecentesco: le atmosfere spaziano dalla bruschezza semiseria alla più schietta giocosità attraverso tutte le sfumature del fiabesco (féerique nello scherzo pizzicato, notturne e un po’ malinconiche nella “Sentimental Sarabande” che sembra a tratti voler risalire alle remote ascendenze moresche di questa danza), ma sempre in una concezione sostanzialmente novecentesca, asciutta e lievemente straniata, della strumentazione e dei rapporti tonali.
La sinfonia di Bizet, composta a 16 anni quand’era studente al Conservatorio di Parigi, rimase giacente negli archivi del medesimo fino a Novecento inoltrato, quando fu casualmente riscoperta dal musicologo Chantavoine. Benché concepita sul modello delle sinfonie di Gounod, non ha nulla del loro sterile accademismo e si risolve anzi in una perfetta sintesi di genio e di freschezza: è già “musica su cui lo spirito danza”, come avrebbe poi detto Nietsche della Carmen.
Ciò che in questa sinfonia non si nota mai a sufficienza è la presenza di un principio unificatore. Anche qui, come in Berlioz, abbiamo uno spunto tematico che si ripropone in varia forma in tutti i movimenti: solo che non si tratta di una melodia come l’idée fixe della Fantastica, bensì di un inciso ritmico (analogo a quello che apre il finale della Grande di Schubert). Nel primo movimento esso domina perentoriamente tutta la prima area tematica; nel secondo, con l’accento spostato, prepara dolcemente l’ingresso alla melodia, riapparendo poi nell’episodio centrale come soggetto di un fugato; nel terzo fornisce lo spunto sia allo scherzo che al trio (anche qui in stile di musetta, con schietti accenti popolareschi), e nel finale innesca con discrezione un meccanismo di moto perpetuo. Essendo in territorio francese, è poi quasi superfluo rilevare la spiccata sensibilità per le raffinatezze timbriche, anche con un’orchestra di stampo tradizionale: particolare rilievo è affidato al settore dei legni e specialmente all’oboe, che la fa da protagonista nelle zone di espansione melodica come il secondo tema del primo movimento e la sezione cantabile dell’adagio (che, specie verso la fine, fa già nettamente presagire l’aria di Micaela). Insomma, alla faccia della prova di conservatorio, siamo di fronte a un autentico capolavoro: sarebbe forte la tentazione di considerarla la più bella sinfonia francese, e comunque, senza esagerare, resta sicuramente la più simpatica.
Particolarmente fresche e ispirate le letture della Orpheus Chamber Orchestra, che sprigionano una verve più unica che rara nel finale di Prokofiev e un altrettanto spiccato senso delle nuances nei tempi centrali di Britten e di Bizet.