①1952年録音のバイエルン放送響との第9の録音の収録から聴いた。数ある第9の録音の演奏の中では最高の出来栄えだと実感した。モノラル録音ではあるが、音質は秀逸である。標準的なテンポ設定ながら、メリハリが効いている。ブルックナーでもヨッフムはメリハリが効いている。これが実に上手い。テクニシャンとはヨッフムを指すのである。しかも、露骨にではなくさりげなく。これが聴衆の感動を誘うのである。
しかも10枚セットでお買い得な価格設定。古い音源をリマスタリングによる良好な音質を再現することに成功している。
お勧めの廉価盤セットである。
EUGEN JOCHUM/ BEETHOVEN,BRAHMS COMPLETE SYMPHONIES
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登録情報
- 製品サイズ : 13.41 x 13.11 x 3.2 cm; 284.06 g
- メーカー : DOCUMENTS
- EAN : 4053796004970
- 商品モデル番号 : B07HPY85M2
- レーベル : DOCUMENTS
- ASIN : B07HPY85M2
- ディスク枚数 : 10
- Amazon 売れ筋ランキング: - 518,809位ミュージック (ミュージックの売れ筋ランキングを見る)
- - 168,795位輸入盤
- カスタマーレビュー:
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Timothy R. Carpenter
5つ星のうち5.0
Coming to these a bit late...
2021年1月11日にアメリカ合衆国でレビュー済みAmazonで購入
Other than Jochum's recording of Bach's Christmas Oratorio and B minor Mass (EMI), my experience of his work has been nil. I got his DGG set of Bruckner symphonies a few tears ago and although I liked them, that did not translate into wanting to explore more of this work. The set under consideration, the Eloquence label and EMI's Icon series made checking out his Beethoven and Brahms economically feasible. Only Furtwängler's wartime recordings of Beethoven and Brahms have made me sit up and take notice in the way these various recordings of Jochum's have. This set is of Jochum's first go-round of three complete sets of these symphonies and the sound is (mostly) good, atmospheric mono. The performances are not Beethoven-as-usual. His phrasing, accents, tempi and dynamics contribute to a wholly individual and, to my heart and mind, valid view of how these symphonies can be performed. There is none of Norrington's perversity nor Celibidache's superhuman slowness. (Although that superhuman slowness while sustaining the musical line did work - sometimes.)
If, like me, you have yet to make your full acquaintance with the Philips recordings of Jochum or van Beinum or Krips, or, maybe, van Kempen, they are being made available on the Decca Eloquence label at a reasonable price.
The boxes (like the one under review) from "the Intense Media" / Documents are even less expensive, often have little or no documentation, but the recordings licensed from other companies are usually in good mono or early stereo sound. The non-studio recordings' sound can be extremely variable.
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aprosdoketon
5つ星のうち5.0
Jochum anni Cinquanta
2022年5月27日にイタリアでレビュー済みAmazonで購入
Quando morì, il 26 marzo del 1987 (anniversario della scomparsa di Beethoven), Eugen Jochum, quasi ottantacinquenne ma ancora lucidissimo e attivissimo, aveva in agenda una tournée italiana nella quale avrebbe dovuto tra l’altro presentare la Terza di Beethoven e la Settima di Bruckner, proprio due sinfonie i cui adagi costituiscono le più alte meditazioni dell’Ottocento strumentale sul mistero della morte. A parte le suggestioni della coincidenza, il dato sintetizza nel migliore dei modi personalità e interessi di questo direttore, che ha incarnato in modo particolarmente nobile ed intelligente lo spirito della scuola tedesca, e che sul repertorio tedesco ha concentrato pressoché interamente la sua attenzione, spaziando da Bach sino ai contemporanei della sua generazione come Orff o come Hindemith e Hartmann, che seppe a suo tempo anche difendere contro gli interdetti della dittatura nazista. Verso le avanguardie di Darmstadt espresse invece un franco rifiuto, così come rimase sostanzialmente estraneo al mondo di Mahler (limite che lo accomuna curiosamente agli altri grandi Kapellmeister del Novecento come Böhm, Sawallisch, Kempe, Wand e Konwitschny : questi ultimi forse i più affini per viraggio interpretativo e scelte di repertorio).
Il nome di Jochum viene di solito immediatamente associato, in una sorta di “corrispondenza biunivoca”, alle musiche di Bruckner, del quale egli è stato il primo ad avere in repertorio tutte e nove le sinfonie nella versione originale, realizzandone ben due integrali discografiche. Si tratta in effetti di uno dei casi più emblematici di totale immedesimazione di un interprete nel mondo di un autore (analogo, tanto per rendere l’idea, alla vocazione mahleriana di Bernstein): uno di quei miracoli interpretativi nella cui genesi si combinano come per magia le disposizioni innate, le illuminanti esperienze formative (per Bernstein il training con un mahleriano supremo come Bruno Walter, per Jochum quello con un bruckneriano dello spessore di Furtwängler, suo predecessore alla presidenza della Bruckner-Gesellschaft), e la comunanza di radici culturali e di convinzioni religiose: fattori che hanno portato il maestro bavarese a identificarsi totalmente nell’universo poco variegato ma straordinariamente profondo di questo San Francesco della sinfonia, rivivendone e ricreandone dall’interno, come cosa propria e come parte integrante del proprio essere, tutte le sublimi ingenuità, le estasi cosmiche, gli squarci naturalistici, le impennate apocalittiche. Ma lo stesso grado di immedesimazione, a ben vedere, si può osservare in tutto il suo repertorio, che non a caso era già in partenza circoscritto agli autori con i quali avvertiva un’autentica consonanza. In lui, ad esempio, tutti riconoscono l’interprete d’elezione di certi grandi affreschi sinfonico-corali come i Carmina Burana di Orff o come l’”altra” Passione di Bach, quella secondo Giovanni. Ma da primato sono anche le sue letture dei concerti di Brahms con solisti come Gilels e Milstein; così come una pietra miliare è rimasta la sua incisione delle Londinesi di Haydn con la London Philharmonic, che ha pochi termini di paragone per solidità d’impianto, vividezza ritmica, brillantezza del suono. E un autentico miracolo, degno di ben maggiore notorietà, sono molte delle sue letture mozartiane, dei trent’anni come degli ottanta, frutto di una concezione estremamente lucida e matura, la cui fluidità di fraseggio, il cui respiro, la cui coesione architettonica hanno eguali soltanto nei momenti più ispirati di Bernstein e Fricsay, i non plus ultra mozartiani della generazione successiva.
Le integrali delle altre due grandi “B” del sinfonismo ottocentesco, che troviamo riunite nel box della Membran, rappresentano il culmine della prima maniera del direttore bavarese. Per l’esattezza, le sinfonie di Beethoven sono state realizzate tra il 1952 (Settima e Nona) e il 1961 (Quarta): Seconda, Terza, Quarta, Sesta, Settima e Ottava con i Berliner, le altre tre con la Radiodiffusione Bavarese; Terza, Settima e Nona sono monofoniche. Le sinfonie di Brahms, tutte berlinesi e monofoniche, datano ai primi anni cinquanta: Seconda nel ’51, Prima e Quarta nel ’53, Terza nel ’56 (con l’aggiunta di due bonus amburghesi, Prima e Terza degli anni Trenta).
L’avventura, peraltro, era destinata a un lungo seguito. La seconda parola su Beethoven sarebbe giunta a fine anni sessanta, targata Concertgebouw e Philips; e ulteriori integrali di tutte e tre le B avrebbero concluso il discorso alla fine dei settanta, per la EMI, rispettivamente con la London Symphony in Beethoven, la London Philharmonic in Brahms (e la Staatskapelle Dresden in Bruckner).
Nelle nostre interpretazioni della prima maturità, gran parte delle quali realizzate quando Furtwängler era ancora vivo (e per giunta proprio coi Berliner, la sua orchestra d’elezione), l’imprinting furtwängleriano è a tratti ancora molto evidente: e ne richiama non tanto lo stile “autunnale” e meditativo dell’ultima stagione viennese, quanto quello eroico, estroso e fiammeggiante delle interpretazioni berlinesi degli anni trenta. È decisamente su questa linea che si schierano le letture brahmsiane del primo Jochum, piene di contrasti e di accensioni: si pensi ai bruschi accelerandi nel primo tempo della Terza e nel finale della Quarta, o all’accentuatissima stretta nella coda del primo tempo di quest’ultima, con un repentino rallentando sugli accordi conclusivi. Nelle incisioni londinesi di un quarto di secolo dopo, troveremo sonorità più corpose e bilanciate, grandiosità d’impianto e solidi equilibri architettonici (grazie anche all’esecuzione di tutti i ritornelli); ma la versione di Berlino, specie in Seconda e Quarta, presenta comunque un’ariosità e uno slancio cui è difficile rinunciare.
Sempre sul piano strutturale, il Beethoven anni cinquanta di Jochum presenta una soluzione che oggi potrà parere curiosa, ma che risulta condivisa da altri autorevoli direttori del passato (ad es. Mengelberg, Keilberth e anche il Toscanini anni trenta), ossia quella di tagliare tutti i ritornelli delle sinfonie “grandi” e osservare tutti quelli delle “piccole”, col paradossale risultato che, per esempio, la Quarta finisce per durare una quarantina di secondi più della Settima. Nella versione olandese del decennio successivo riapparirà il ritornello del primo tempo dell’Eroica, e in quella londinese verranno ripristinati quasi tutti (con la persistente eccezione del primo tempo della Sesta). Anche qui le dinamiche sono trattate con geniale elasticità: si faccia caso, per esempio, al modo in cui vengono gestiti i rallentandi a metà dello sviluppo nel primo tempo della Quinta. La riuscita interpretativa più entusiasmante deve probabilmente vedersi nell’Eroica, dove tensione epica e cura dei dettagli si sposano in maniera davvero neo-furtwangleriana: si faccia caso al senso di progressione che anima esposizione e sviluppo del primo tempo, al calore espressivo e alla fluidità della sezione centrale della marcia funebre, ai millimetrici giochi di rallentandi e accelerandi che accrescono evidenza ad ogni minimo particolare nelle variazioni conclusive. Ma la stessa attitudine a mettere in luce dettagli inesplorati produce risultati geniali davvero un po’ ovunque: per non citare che uno degli esempi meno scontati, si faccia caso al minuetto dell’Ottava, che, col suo fraseggio morbido e le sue linee ritmiche increspate, finisce a sorpresa per rivelarsi come l’antesignano di quegli intermezzi “fluidi” che incontreremo nella Quarta di Mendelssohn e nelle prime tre sinfonie di Brahms.
Che dire in conclusione? Ad ascoltare senza preconcetti queste interpretazioni, viene seriamente da domandarsi che cos’abbia da invidiare l’umile Kapellmeister di Babenhausen alle somme divinità mediatiche del podio. Azzardare graduatorie, a livelli del genere, è sempre una pretesa azzardata e presuntuosa: non si può comunque fare a meno di riconoscere che ci troviamo di fronte a uno dei non molti autentici grandi direttori del ventesimo secolo, uno di quelli le cui interpretazioni non conoscono punti morti e sono sempre in grado di rivelarci qualcosa di decisivo sull’anima dell’autore, su quella dell’interprete… e sulla nostra, se ne abbiamo una. Ma forse il miglior modo di concludere può essere un aforisma attribuito a Muti, noto per non essere indiscriminatamente benevolo con i colleghi: semplicemente, “Jochum è la verità”.
Il nome di Jochum viene di solito immediatamente associato, in una sorta di “corrispondenza biunivoca”, alle musiche di Bruckner, del quale egli è stato il primo ad avere in repertorio tutte e nove le sinfonie nella versione originale, realizzandone ben due integrali discografiche. Si tratta in effetti di uno dei casi più emblematici di totale immedesimazione di un interprete nel mondo di un autore (analogo, tanto per rendere l’idea, alla vocazione mahleriana di Bernstein): uno di quei miracoli interpretativi nella cui genesi si combinano come per magia le disposizioni innate, le illuminanti esperienze formative (per Bernstein il training con un mahleriano supremo come Bruno Walter, per Jochum quello con un bruckneriano dello spessore di Furtwängler, suo predecessore alla presidenza della Bruckner-Gesellschaft), e la comunanza di radici culturali e di convinzioni religiose: fattori che hanno portato il maestro bavarese a identificarsi totalmente nell’universo poco variegato ma straordinariamente profondo di questo San Francesco della sinfonia, rivivendone e ricreandone dall’interno, come cosa propria e come parte integrante del proprio essere, tutte le sublimi ingenuità, le estasi cosmiche, gli squarci naturalistici, le impennate apocalittiche. Ma lo stesso grado di immedesimazione, a ben vedere, si può osservare in tutto il suo repertorio, che non a caso era già in partenza circoscritto agli autori con i quali avvertiva un’autentica consonanza. In lui, ad esempio, tutti riconoscono l’interprete d’elezione di certi grandi affreschi sinfonico-corali come i Carmina Burana di Orff o come l’”altra” Passione di Bach, quella secondo Giovanni. Ma da primato sono anche le sue letture dei concerti di Brahms con solisti come Gilels e Milstein; così come una pietra miliare è rimasta la sua incisione delle Londinesi di Haydn con la London Philharmonic, che ha pochi termini di paragone per solidità d’impianto, vividezza ritmica, brillantezza del suono. E un autentico miracolo, degno di ben maggiore notorietà, sono molte delle sue letture mozartiane, dei trent’anni come degli ottanta, frutto di una concezione estremamente lucida e matura, la cui fluidità di fraseggio, il cui respiro, la cui coesione architettonica hanno eguali soltanto nei momenti più ispirati di Bernstein e Fricsay, i non plus ultra mozartiani della generazione successiva.
Le integrali delle altre due grandi “B” del sinfonismo ottocentesco, che troviamo riunite nel box della Membran, rappresentano il culmine della prima maniera del direttore bavarese. Per l’esattezza, le sinfonie di Beethoven sono state realizzate tra il 1952 (Settima e Nona) e il 1961 (Quarta): Seconda, Terza, Quarta, Sesta, Settima e Ottava con i Berliner, le altre tre con la Radiodiffusione Bavarese; Terza, Settima e Nona sono monofoniche. Le sinfonie di Brahms, tutte berlinesi e monofoniche, datano ai primi anni cinquanta: Seconda nel ’51, Prima e Quarta nel ’53, Terza nel ’56 (con l’aggiunta di due bonus amburghesi, Prima e Terza degli anni Trenta).
L’avventura, peraltro, era destinata a un lungo seguito. La seconda parola su Beethoven sarebbe giunta a fine anni sessanta, targata Concertgebouw e Philips; e ulteriori integrali di tutte e tre le B avrebbero concluso il discorso alla fine dei settanta, per la EMI, rispettivamente con la London Symphony in Beethoven, la London Philharmonic in Brahms (e la Staatskapelle Dresden in Bruckner).
Nelle nostre interpretazioni della prima maturità, gran parte delle quali realizzate quando Furtwängler era ancora vivo (e per giunta proprio coi Berliner, la sua orchestra d’elezione), l’imprinting furtwängleriano è a tratti ancora molto evidente: e ne richiama non tanto lo stile “autunnale” e meditativo dell’ultima stagione viennese, quanto quello eroico, estroso e fiammeggiante delle interpretazioni berlinesi degli anni trenta. È decisamente su questa linea che si schierano le letture brahmsiane del primo Jochum, piene di contrasti e di accensioni: si pensi ai bruschi accelerandi nel primo tempo della Terza e nel finale della Quarta, o all’accentuatissima stretta nella coda del primo tempo di quest’ultima, con un repentino rallentando sugli accordi conclusivi. Nelle incisioni londinesi di un quarto di secolo dopo, troveremo sonorità più corpose e bilanciate, grandiosità d’impianto e solidi equilibri architettonici (grazie anche all’esecuzione di tutti i ritornelli); ma la versione di Berlino, specie in Seconda e Quarta, presenta comunque un’ariosità e uno slancio cui è difficile rinunciare.
Sempre sul piano strutturale, il Beethoven anni cinquanta di Jochum presenta una soluzione che oggi potrà parere curiosa, ma che risulta condivisa da altri autorevoli direttori del passato (ad es. Mengelberg, Keilberth e anche il Toscanini anni trenta), ossia quella di tagliare tutti i ritornelli delle sinfonie “grandi” e osservare tutti quelli delle “piccole”, col paradossale risultato che, per esempio, la Quarta finisce per durare una quarantina di secondi più della Settima. Nella versione olandese del decennio successivo riapparirà il ritornello del primo tempo dell’Eroica, e in quella londinese verranno ripristinati quasi tutti (con la persistente eccezione del primo tempo della Sesta). Anche qui le dinamiche sono trattate con geniale elasticità: si faccia caso, per esempio, al modo in cui vengono gestiti i rallentandi a metà dello sviluppo nel primo tempo della Quinta. La riuscita interpretativa più entusiasmante deve probabilmente vedersi nell’Eroica, dove tensione epica e cura dei dettagli si sposano in maniera davvero neo-furtwangleriana: si faccia caso al senso di progressione che anima esposizione e sviluppo del primo tempo, al calore espressivo e alla fluidità della sezione centrale della marcia funebre, ai millimetrici giochi di rallentandi e accelerandi che accrescono evidenza ad ogni minimo particolare nelle variazioni conclusive. Ma la stessa attitudine a mettere in luce dettagli inesplorati produce risultati geniali davvero un po’ ovunque: per non citare che uno degli esempi meno scontati, si faccia caso al minuetto dell’Ottava, che, col suo fraseggio morbido e le sue linee ritmiche increspate, finisce a sorpresa per rivelarsi come l’antesignano di quegli intermezzi “fluidi” che incontreremo nella Quarta di Mendelssohn e nelle prime tre sinfonie di Brahms.
Che dire in conclusione? Ad ascoltare senza preconcetti queste interpretazioni, viene seriamente da domandarsi che cos’abbia da invidiare l’umile Kapellmeister di Babenhausen alle somme divinità mediatiche del podio. Azzardare graduatorie, a livelli del genere, è sempre una pretesa azzardata e presuntuosa: non si può comunque fare a meno di riconoscere che ci troviamo di fronte a uno dei non molti autentici grandi direttori del ventesimo secolo, uno di quelli le cui interpretazioni non conoscono punti morti e sono sempre in grado di rivelarci qualcosa di decisivo sull’anima dell’autore, su quella dell’interprete… e sulla nostra, se ne abbiamo una. Ma forse il miglior modo di concludere può essere un aforisma attribuito a Muti, noto per non essere indiscriminatamente benevolo con i colleghi: semplicemente, “Jochum è la verità”.

John Keogh
5つ星のうち5.0
Fine recordings of Beedthoven and Brahms symphonies
2021年11月18日に英国でレビュー済みAmazonで購入
Excellent mono and stereo recordings from the 1950s at a very good price. Service was as promised.

Loïc Céry
5つ星のうち5.0
L'une des trois intégrales majeures des Symphonies de Brahms
2020年8月31日にフランスでレビュー済みAmazonで購入
Si vous voulez être littéralement cloué sur place par des enregistrements dont vous oublierez très vite qu'ils sont en mono (donc vieux enregistrements, pour sûr), écoutez l'intégrale des symphonies de Brahms enregistrée par Eugen Jochum avec le Philharmonique de Berlin, l'orchestre de la radio bavaroise et l'orchestre de Hambourg (ici, intégrale doublée de la première des deux intégrales mythiques des symphonies de Beethoven par Jochum et Berlin). Ici, Eugen Jochum est en quelque sorte le père de la version énergique et expressive de Brahms par Karajan, et l'autre grande référence brahmsienne de cette époque (années 50/60) avec Otto Klemperer à la tête du Philharmonia. L'énergie demeure le maître-mot de cette version dynamique et acérée de Brahms, celle qui convient à cette musique. Jochum, Klemperer, Karajan mais aussi Bernstein (nettement plus pathétique et qui en fait parfois un tout petit trop) demeurent selon moi les meilleurs dans les intégrales des symphonies de Brahms (et j'y ajoute Abbado, mais dans une moindre mesure cependant). Ici, le sens de la phrase brahmsienne qui rebondit en harmonie et dans ses contrastes devient évident, comme s'il s'agissait de restituer à cette musique son relief initial et sa puissance intrinsèque. C'est ce à quoi est parvenu également Jochum dans Beethoven et évidemment dans Bruckner, où il est difficilement égalable (sauf par Karajan, approchant de cette perfection dans Bruckner). Eugen Jochum est l'un des plus grands chefs du XXe siècle, mais à mon sens cette évidence est immense dans ces trois cas, faisant de lui un maître incontesté : Beethoven, Brahms, Bruckner. De sorte que pour Brahms, je considère cette intégrale comme le meilleur avec celles de Klemperer et de Karajan. En un sens, pour apprécier les apports des deux autres, je dirais qu'il faut commencer par cette intégrale, pour accéder directement à la quintessence de ce Brahms épuré de toutes les scories pâteuses que lui ont accolé pas mal de chefs. La Première est pour cela même d'une puissance et d'une ampleur singulières, que l'on retrouvera encore plus massive chez Karajan. Jochum ici découpe dans les phrasés une clarté, une limpidité où l'on retrouve le Brahms chambriste, sans pour autant oublier la masse orchestrale totalement maîtrisée. L'orchestre est réellement ici l'instrument de Jochum : écoutez le finale de cette Première pour vous en rendre compte ; ici, on est en territoire de précision, de clarté et de puissance crue, je veux dire non surjouée par je ne sais quel pathos. Brahms à son état de jaillissement et de diamant brillant et tranchant après Beethoven dans la symphonie (je précise que tout cela s’applique à la version du Philharmonique de Berlin, celle donnée en bonus sur le 3e cd, version live avec l’orch. de la radio bavaroise est difficilement audible du point de vue de la prise de son).
Sautez vers la Troisième, vous comprendrez alors la comparaison que j’établis avec Karajan : le pont y est encore plus manifeste, avec une similarité de tempo dynamique et là encore destiné à souligner l’énergie de cette écriture habitée par ses propres tensions et par la volonté de lutter contre ses tensions. Et point commun avec Klemperer : l’éminente précision du phrasé et du traitement de l’orchestration, alliance entre la masse et la singularité instrumentale. Et toujours, suprême rigueur de la battue. Ces chefs (Klemperer, Jochum, Karajan) étaient des sportifs de l’orchestre (comme Furtwangler) et c’est sans doute ce qui fonde leur impressionnant savoir-faire, donnant l’impression quand ils dirigent qu’ils sont à la tête d’un bolide dont ils connaissent les moindres rouages, et c’est pourquoi ils se permettent de le conduire sur les chapeaux de roue. L’esprit même de la symphonie romantique requiert cette capacité de débauche d’énergie alliée à une maîtrise consommée et à une rigueur exemplaire, et sur ce point ces trois chefs tiennent là leurs dénominateurs communs. Cette Troisième Symphonie est acérée comme jamais (chez le grand Bernstein elle est sirupeuse, sauf dans son célèbre scherzo où il excelle mais derrière les tensions vives de Karajan). L’esprit de tension est ici non pas dans l’expression, mais dans le son lui-même : il s’agit d’une tension organique inhérente à la masse orchestrale qui se produit comme les vagues de l’océan. Sans cela, l’andante de la Troisième peut devenir bien morne, or écoutez-le ici, il n’est que reliefs, courbes et droites. Jochum sculpte le son, comme il le fait dans Beethoven et Brahms. Le scherzo, justement, est poignant comme jamais mais par cela-même qui se nome maîtrise des tensions, et non pas jeu de théâtre. Jochum ressemble tant ici encore à Karajan, quand ils réussissent tous les deux en ce haut lieu de l’expressivité brahmsienne, à jouer des étirements et des retenues sonores dans une savante économie des moyens déployés. Le pôle de ces tensions chez Brahms (« frei aber fröh ») reçoit ici une perfection absolue : la distribution des rôles entre les vents et les cordes, comme chez le maître Beethoven, suffit à ces tensions constitutives. Au gré des réexpositions du thème principal du scherzo, le drame se déploie, mais dans le son, sans autre insertion : tout vient de l’intérieur de la musique. Alors quand intervient l’allegro final, on ne sera pas surpris de la poursuite logique de l’énergie initiale, dans cette musique qui « avance » comme celle de Beethoven, dans son mouvement propre et implacable. Et ça, Jochum vous le fera sentir, comme Klemperer et surtout Karajan. Ce qui le lie aux deux autres, c’est encore le sens inné de l’architecture de ces grandes œuvres. Et c’est certainement pourquoi il est important d’écouter Beethoven et Brahms par ces chefs : c’est la cohérence même de ces grandes symphonies qui apparaît d’un bout à l’autre des interprétations. Ce finale de la Troisième est agité, eh bien on n’évitera pas l’agitation les sursauts, les soubresauts, la poussée en avant haletante où Brahms sculpte le rythme comme une matière meuble se cristallisant sous nos yeux, avant l’évanescente conclusion de cette symphonie.
La Quatrième est au rendez-vous de cette excellence des étirements, elle qui s’ouvre sur ces intervalles océaniques à souhait, unités progressivement déployées puis redéployées avec génie. La musique induit sa respiration, et là encore Jochum parvient à donner toute sa puissance à cette merveille. Ici, Eugen Jochum à la tête du Philharmonique parvient incontestablement à rejoindre l’autre interprétation mythique de la Quatrième, celle de Carlos Kleiber à la tête du Philharmonique de Vienne. L’éminent lyrisme de Kleiber rejoint mystérieusement ce à quoi parvient ici Jochum par la puissance et la rigueur. C’est ainsi qu’il faut écouter Brahms : dans le relief et la projection. Eugen Jochum est un champion des accents et des sections limpides de l’orchestre. La Quatrième est sans aucun doute la symphonie la plus concentrée et celle où l’intensité tragique atteint son sommet. Elle est aussi réputée pour être la symphonie dont l’écriture est la plus subtile et la plus accomplie. La fin de l’allegro initial vous plongera en tout cas dans le flot de l’énergie brahmsienne, irrésistible par la magie de Jochum. L’andante, tout en retenue, vous l’entendrez come tout le reste, dans la clarté, le son ciselé, chaque note détachée (différence avec Karajan, chercheur du legato surtout dans ses dernières années) comme un diamant, pierre d’un édifice où l’on pénètre progressivement, un paysage qui se découvre graduellement. Le caractère enjoué et légèrement hystérique de l’allegro qui suit (Mahler n’est pas loin, dans cette sorte de fête forcée et menacée) est ici exprimé comme il le faut par Jochum, c’est-à-dire à l’abri de toute légèreté niaise : on est ici dans une dialectique des formes qui constitue organiquement cette Quatrième. Car ce qui succède est sans doute l’accomplissement tragique le plus impressionnant de l’art symphonique de Brahms. On retrouvera ici le modèle expressif suivi plus tard par Karajan. Jochum fait ressortir une construction architecturale qui relève du combat beethovenien, dans sa progression et son développement sans cesse menacé, mais qui avance dans l’inconnu par une force organique irréductible. Les sursauts ne manqueront pas, mais ici encore ils proviennent de l’intérieur, et pas d’une intention plaquée sur la musique. Eugen Jochum dans ce mouvement final de la Quatrième, réussit comme à son habitude, à vous faire pénétrer l’écriture musicale de Brahms, pour ne pas surjouer la musique romantique en dehors de sa propre logique. C’est ainsi que savent également procéder les bons interprètes du baroque, et de Bach en particulier. Ce final de la Quatrième est dialectique et résolution de conflits. On est effectivement dans le mouvement le plus « beethovenien » de Brahms, et pourtant éminemment chez Brahms. Et Jochum est son messager.
Sautez vers la Troisième, vous comprendrez alors la comparaison que j’établis avec Karajan : le pont y est encore plus manifeste, avec une similarité de tempo dynamique et là encore destiné à souligner l’énergie de cette écriture habitée par ses propres tensions et par la volonté de lutter contre ses tensions. Et point commun avec Klemperer : l’éminente précision du phrasé et du traitement de l’orchestration, alliance entre la masse et la singularité instrumentale. Et toujours, suprême rigueur de la battue. Ces chefs (Klemperer, Jochum, Karajan) étaient des sportifs de l’orchestre (comme Furtwangler) et c’est sans doute ce qui fonde leur impressionnant savoir-faire, donnant l’impression quand ils dirigent qu’ils sont à la tête d’un bolide dont ils connaissent les moindres rouages, et c’est pourquoi ils se permettent de le conduire sur les chapeaux de roue. L’esprit même de la symphonie romantique requiert cette capacité de débauche d’énergie alliée à une maîtrise consommée et à une rigueur exemplaire, et sur ce point ces trois chefs tiennent là leurs dénominateurs communs. Cette Troisième Symphonie est acérée comme jamais (chez le grand Bernstein elle est sirupeuse, sauf dans son célèbre scherzo où il excelle mais derrière les tensions vives de Karajan). L’esprit de tension est ici non pas dans l’expression, mais dans le son lui-même : il s’agit d’une tension organique inhérente à la masse orchestrale qui se produit comme les vagues de l’océan. Sans cela, l’andante de la Troisième peut devenir bien morne, or écoutez-le ici, il n’est que reliefs, courbes et droites. Jochum sculpte le son, comme il le fait dans Beethoven et Brahms. Le scherzo, justement, est poignant comme jamais mais par cela-même qui se nome maîtrise des tensions, et non pas jeu de théâtre. Jochum ressemble tant ici encore à Karajan, quand ils réussissent tous les deux en ce haut lieu de l’expressivité brahmsienne, à jouer des étirements et des retenues sonores dans une savante économie des moyens déployés. Le pôle de ces tensions chez Brahms (« frei aber fröh ») reçoit ici une perfection absolue : la distribution des rôles entre les vents et les cordes, comme chez le maître Beethoven, suffit à ces tensions constitutives. Au gré des réexpositions du thème principal du scherzo, le drame se déploie, mais dans le son, sans autre insertion : tout vient de l’intérieur de la musique. Alors quand intervient l’allegro final, on ne sera pas surpris de la poursuite logique de l’énergie initiale, dans cette musique qui « avance » comme celle de Beethoven, dans son mouvement propre et implacable. Et ça, Jochum vous le fera sentir, comme Klemperer et surtout Karajan. Ce qui le lie aux deux autres, c’est encore le sens inné de l’architecture de ces grandes œuvres. Et c’est certainement pourquoi il est important d’écouter Beethoven et Brahms par ces chefs : c’est la cohérence même de ces grandes symphonies qui apparaît d’un bout à l’autre des interprétations. Ce finale de la Troisième est agité, eh bien on n’évitera pas l’agitation les sursauts, les soubresauts, la poussée en avant haletante où Brahms sculpte le rythme comme une matière meuble se cristallisant sous nos yeux, avant l’évanescente conclusion de cette symphonie.
La Quatrième est au rendez-vous de cette excellence des étirements, elle qui s’ouvre sur ces intervalles océaniques à souhait, unités progressivement déployées puis redéployées avec génie. La musique induit sa respiration, et là encore Jochum parvient à donner toute sa puissance à cette merveille. Ici, Eugen Jochum à la tête du Philharmonique parvient incontestablement à rejoindre l’autre interprétation mythique de la Quatrième, celle de Carlos Kleiber à la tête du Philharmonique de Vienne. L’éminent lyrisme de Kleiber rejoint mystérieusement ce à quoi parvient ici Jochum par la puissance et la rigueur. C’est ainsi qu’il faut écouter Brahms : dans le relief et la projection. Eugen Jochum est un champion des accents et des sections limpides de l’orchestre. La Quatrième est sans aucun doute la symphonie la plus concentrée et celle où l’intensité tragique atteint son sommet. Elle est aussi réputée pour être la symphonie dont l’écriture est la plus subtile et la plus accomplie. La fin de l’allegro initial vous plongera en tout cas dans le flot de l’énergie brahmsienne, irrésistible par la magie de Jochum. L’andante, tout en retenue, vous l’entendrez come tout le reste, dans la clarté, le son ciselé, chaque note détachée (différence avec Karajan, chercheur du legato surtout dans ses dernières années) comme un diamant, pierre d’un édifice où l’on pénètre progressivement, un paysage qui se découvre graduellement. Le caractère enjoué et légèrement hystérique de l’allegro qui suit (Mahler n’est pas loin, dans cette sorte de fête forcée et menacée) est ici exprimé comme il le faut par Jochum, c’est-à-dire à l’abri de toute légèreté niaise : on est ici dans une dialectique des formes qui constitue organiquement cette Quatrième. Car ce qui succède est sans doute l’accomplissement tragique le plus impressionnant de l’art symphonique de Brahms. On retrouvera ici le modèle expressif suivi plus tard par Karajan. Jochum fait ressortir une construction architecturale qui relève du combat beethovenien, dans sa progression et son développement sans cesse menacé, mais qui avance dans l’inconnu par une force organique irréductible. Les sursauts ne manqueront pas, mais ici encore ils proviennent de l’intérieur, et pas d’une intention plaquée sur la musique. Eugen Jochum dans ce mouvement final de la Quatrième, réussit comme à son habitude, à vous faire pénétrer l’écriture musicale de Brahms, pour ne pas surjouer la musique romantique en dehors de sa propre logique. C’est ainsi que savent également procéder les bons interprètes du baroque, et de Bach en particulier. Ce final de la Quatrième est dialectique et résolution de conflits. On est effectivement dans le mouvement le plus « beethovenien » de Brahms, et pourtant éminemment chez Brahms. Et Jochum est son messager.

HB
5つ星のうち5.0
Well played with great musicality
2022年4月16日にアメリカ合衆国でレビュー済みAmazonで購入
The recordings here by the legendary Eugen Jochum are well played and very satisfying. The recordings were made in the 1950's and early 60's. Despite that, the sound is quite good. I especially enjoyed the Pastorale (Beethoven Sixth) which is played with an unusual amount of passion. A set like this is not meant for classical music lovers just getting into it. It is for serious collectors who enjoy the great conductors of the past. Highly recommended.